MACEO CARLONI
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Sindacalista negli anni del fascismo

Stefano Fabei 
“Fascismo d’acciaio  Maceo Carloni e il Sindacalismo a Terni (19220 – 1944)”, Ed.Murzia 2013

Estratto dalla Introduzione

Le origini del fascismo a Terni, la svolta dittatoriale dopo il 3 gennaio 1925, il consolidamento della dittatura, la crisi economica del 1929, la politica corporativa del decennio successivo e la guerra costituiranno le tappe cronologiche di un percorso che affronteremo focalizzando sia gli aspetti legati alle organizzazioni sindacali — dai contratti collettivi di lavoro all'assistenza sanitaria, previdenziale e dopolavoristica, dalla mutualità al collocamento — sia l'attenzione della stampa verso i grandi temi del sindacato dell'industria, le discussioni sul sindacalismo e il corporativismo, che riecheggiavano i dibattiti nazionali contemporanei, sia, per quanto riguarda il periodo della RSI, l'elezione, anche a Terni, delle commissioni di fabbrica, da cui nel dopoguerra sorgeranno i consigli di gestione, presi a modello dal più importante e rappresentativo sindacato italiano, la CGIL.     
La figura, tra quelle sopra citate, su cui concentreremo maggiormente il nostro interesse, sarà quella di Maceo Carloni, non soltanto perché la famiglia ci ha permesso di studiare la documentazione raccolta nel suo archivio, ma anche perché fu un sindacalista che per quindici anni si trovò a capo dei metallurgici ternani, ricoprì vari incarichi e svolse missioni importanti a livello sia locale sia nazionale, senza contare la sua grande passione morale e civile e il suo apporto di idee ai temi del lavoro e dell'assistenza con articoli su fogli sindacali come «Acciaio» e «Il Lavoro Metallurgico». Grazie alle vicende di questo protagonista e testimone di un momento tra i più drammatici della nostra storia nazionale, abbiamo oggi la possibilità di studiare e interpretare con una prospettiva nuova e con un atteggiamento privo di pregiudizi, quel fenomeno originale e complesso che fu il sindacalismo fascista, la cui comprensione non è possibile se non ci si libera dalle camicie di forza che sono le tradizionali categorie di destra e di sinistra. Cercheremo inoltre di far emergere un'immagine diversa e non convenzionale del lavoratore italiano durante il regime fascista, quella di un uomo che dall'esperienza della Prima guerra mondiale imparò a pensare e a progettare la vita secondo un'ottica nazionale, attribuendo anche al lavoro un senso etico e pedagogico.
In virtù dell'attività svolta nel sindacato, Carloni fu cooptato anche per incarichi nel campo della mutualità e dell'assistenza ai lavoratori. Difficile stabilire la data d'inizio della sua opera in tale settore; il suo nome figura per la prima volta nel 1932 tra i Sindaci dell'Unione operaia di previdenza fra il personale della «Terni». Possiamo ritenere che qualche tempo dopo sia entrato a far parte del Consiglio di amministrazione della stessa Unione operaia di previdenza. Come membro del CdA, comunque, Carloni figura in un documento del maggio del 1936, in cui si ratificava la fusione dell'«Unione di Previdenza» con la vecchia «Cassa Soccorso Malati», che dava origine a un grande organismo previdenziale e assistenziale chiamato «Cassa di Previdenza e Mutualità».
Nel settembre del 1938, Carloni, a nome del consiglio di amministrazione della nuova mutua, propose con successo al consiglio generale della suddetta associazione di mutare nome chiamandola Cassa di previdenza fra gli operai degli stabilimenti siderurgici della Società «Terni», al fine di meglio definire gli scopi essenzialmente previdenziali della società stessa. A quello stesso periodo risale la campagna da lui svolta, con articoli apparsi su «Acciaio. Settimanale del Fascio di Combattimento di Terni» a sostegno del sistema mutualistico perfezionato dal fascismo. In un suo intervento Carloni ricostruì la storia della mutualità a Terni dalle origini fino alle mutue paritetiche volute dal regime e controllate dalle organizzazioni sindacali, riconoscendo ed elogiando il senso di «orientamento profondo» degli operai e l'incessante sforzo esercitato da questi per la propria elevazione morale e spirituale. Consapevole che il cammino percorso con un ritmo molto sostenuto, soprattutto dal 1928 in poi, doveva essere completato, Carloni, con lo sguardo proiettato al futuro, affermava la necessità di revisionare e modernizzare sia il sistema sia la mentalità, nella convinzione che la previdenza non rappresentasse il sacrificio della quota mensile che ogni assicurato era chiamato a versare, ma «il radioso faro» illuminante «la buia notte del lavoratore», dando a questo la tranquillità necessaria per sopportare i duri colpi del destino. In risposta a quanti sostenevano che i lavoratori speculavano sulla malattia, sommando ai sussidi dei vecchi organismi mutualistici quelli della mutua paritetica, e superando addirittura il salario giornaliero, Carloni. affermava: «Si convincano coloro che giudicano secondo la capacità del proprio portafoglio e non si rendono conto di quanto atroce sia la situazione dell'operaio quando privo di lavoro, roso dal male non può col proprio guadagno assicurare l'esistenza della famiglia e trascina per mesi, spesso per anni, le conseguenze economiche della malattia, che il sussidio corrisposto dalle mutue non può essere rappresentato dalla metà, e spesso meno, di quello che l'associato percepirebbe se la malattia non lo tenesse lontano dal lavoro».
Secondo lui non era vero che si speculasse sulla malattia se il sussidio permetteva una maggiore tranquillità: «L'operaio è onesto e probo. Esso vive bene nell'orbita del Regime Fascista. Ha capito lo spirito del Regime e quando applaude il Duce o chi lo rappresenti nella Provincia, lo fa col profondo convincimento che nasce dalla certezza che Egli, in ogni minuto della sua vita, assicura un'altra pietra al grandioso edificio della nuova civiltà del lavoro».
Tornando sull'argomento due mesi dopo Carloni, tracciato lo sviluppo del sistema previdenziale nazionale e locale, dalle mutue libere a quelle gestite dalle organizzazioni sindacali, concentrò la sua attenzione sulla mutua paritetica degli operai siderurgici ternani. Contro gli ostacoli posti dai professionisti privati, difese l'iniziativa della maggiore delle mutue aziendali di attrezzare un gabinetto per le cure fisioterapiche e di un gabinetto odontoiatrico, cogliendo l'occasione di ringraziare il senatore Bocciardo per il suo spirito di comprensione e il segretario federale per il suo «sentimento di alta fraternità verso il popolo»: «Siano per questa opera di bene, riconoscenti gli operai agli uomini che, superando qualunque questione di forma, hanno raccolto la proposta del nostro federale, dotando la mutua di mezzi sempre più idonei alla conservazione e alla cura della salute. Che importa, di fronte al beneficio risentito da migliaia di lavoratori, il danno che ne deriverà ai quattro o cinque professionisti locali?»." Carloni concludeva il suo intervento auspicando la nascita delle cliniche specializzate nei vari rami delle cure mediche o chirurgiche, e dei convalescenziari. Solo così le mutue paritetiche avrebbero potuto dire di assolvere in pieno il loro alto programma nel campo dell'assistenza operaia. Un certo equilibrio economico sarebbe stato portato nel particolare settore dell'assistenza medica al momento gravosa e insostenibile per i modesti bilanci dei lavoratori.' In quella metà degli anni Trenta Carloni fu attivo nell'ambito mutualistico oltre che nel sindacato e nel dopolavoro. Nell'ottobre del 1936 fu nominato Direttore generale della Cassa mutua malattie stabilimenti siderurgici della «Terni» dal segretario della CFLI, Unione provinciale di Terni. Questi, dandone comunicazione all'interessato, dichiarava «di fare sicuro affidamento nell'opera che andrà a svolgere a pro di un Ente tanto delicato e tanto necessario ai nostri lavoratori, perché entro il più breve tempo possibile questa nobile istituzione, voluta e realizzata dal Sindacalismo fascista, possa riprendere il suo regolare cammino»." Negli «Ordini di servizio» al ragionier Scalzone, capo ufficio della mutua, al dottor Bianciardi e agli ispettori Checchiani e Franconi, Carloni in qualità di direttore generale raccomandava i comportamenti da tenere nei riguardi dei mutuati e degli enti assistenziali. In uno di questi «Ordini di servizio» prescriveva ai due «sorveglianti» di «tenere, nei confronti dei soci, contegno decoroso e fraterno, usare con essi modi urbani, non dando l'impressione di essere comandati al servizio di vigilanza con l'incarico di inquisire ma, bensì, con quello di svolgere opera di tutela del patrimonio dei lavoratori contribuendo alla repressione degli abusi». Sempre nell'ambito dell'attività assistenziale Carloni ricevette altri incarichi dal sindacato. La CFLI, Unione provinciale di Terni, tra il 1937 e il 1939 lo nominò membro del Comitato dell'Ufficio provinciale fascista di collegamento e di gestione delle Casse mutue malattia dell'industria; membro dell'Ufficio provinciale della Federazione fascista delle Casse mutue malattia; membro del Consiglio direttivo della Cassa mutua aziendale della Società «Terni» Stabilimenti elettrochimici Nera Montoro; amministratore delegato della Mutua aziendale Società «Terni» stabilimenti siderurgici. Nello svolgimento di queste mansioni Carloni profuse un impegno e una serietà di cui è testimonianza la corrispondenza conservata in archivio e in particolare gli ordini di servizio da lui impartiti. In qualità di operaio e di sindacalista intervenne sulla stampa in difesa dei diritti dei mutuati. Con un articolo su «L'assistenza farmaceutica ai lavoratori mutuati», apparso ne «Il Lavoro Metallurgico» prese parte alla polemica riguardante le prescrizioni dei preparati speciali, esprimendo la sua contrarietà a ogni limitazione — «tutte, dico tutte le medicine speciali devono essere concesse ai mutuati quando esiste regolare prescrizione del medico curante» — e chiamando in causa le organizzazioni sindacali per risolvere i problemi legati all'estensione delle specialità mutualistiche, secondo una logica che imponeva di rafforzare il sistema economico della mutua e con esso tutto il sistema assistenziale. Carloni, in quanto operaio che trascorreva la propria vita nelle officine, poteva affermare, senza tema di smentita, che la massa dei lavoratori preferiva pagare maggiori contributi ma garantirsi un'assistenza completa. I lavoratori apprezza-vano della mutua, più di ogni altra cosa, l'assistenza farmaceutica che era la più costosa e quella cui si attaccava «l'ammalato ansioso di realizzare una rapida, completa guarigione, oppure ansioso di precorrere l'assalto del male con una energica azione curativa».
In quegli anni Carloni visse l'esperienza dopolavoristica con entusiasmo e con uno spirito critico che gli permise di notare e riflettere su quanto gli altri non volevano vedere in relazione a quella capillare organizzazione che a Terni sviluppò una serie di servizi sociali e assistenziali, di attività ricreative, sportive, culturali, fino allora ignorate, dove l'individuo, superando le divisioni classiste, pur in competizione con gli altri, usciva da quell'atomizzazione che lo aveva reso abulico nel passato. Abbiamo detto come il fascismo volesse combattere l'indifferenza, la fuga nella vita privata, con una lunga pratica il cui obiettivo era la creazione del nuovo italiano. Carloni che, fiduciario del circolo aziendale della «Terni», nel giugno del 1929 aveva pagato il suo atteggiamento indipendente con l'espulsione dall'OND, aveva ripreso a impegnarsi in questo settore dopo il rientro nel sindacato e alla fine del 1935 fu nominato commissario straordinario del Circolo «Corridoni» da Giulio Santoni, segretario federale e presidente del dopolavoro provinciale, che lo incaricò anche della sistemazione finanziaria." Tale mansione fu da lui mantenuta, con il rigore e l'impegno che caratterizzavano tutti gli altri aspetti della propria vita, fino al marzo del 1936.  Come capo gruppo dei metallurgici, nel 1935 Carloni entrò a far parte della commissione che assisteva la direzione del dopolavoro aziendale della «Terni». Su proposta della detta commissione fu costruito un teatro che doveva servire per trattenimenti di natura artistica, corali, lirici e filodrammatici. Al teatro, che disponeva di 600 posti, operavano artisti che dovevano essere scelti tra le maestranze degli stabilimenti. In seguito furono arruolate settimanalmente compagnie operettistiche e di varietà, per spettacoli incapaci secondo Carloni di elevare le qualità morali e professionali dei lavoratori. Per tale ragione, non condividendo le scelte della commissione, contrarie al carattere del dopolavoro, il nostro protestò con Torquato Feliciangeli, segretario dei lavoratori dell'industria. Nella lettera indirizzata a quest'ultimo con cui annunciava, dopo varie operazioni di isolamento, il suo definitivo allontanamento dalla commissione, Carloni rappresentò un quadro critico delle iniziative dopolavoristiche alla «Terni»: «Mentre restavano precluse le possibilità di sviluppo di qualunque forma di elevazione dei lavoratori per la mancanza assoluta di iniziative, si dava impulso a manifestazioni mondane con organizzazioni di balli, di ricevimenti, di cene, a cui si poteva naturalmente partecipare in regolare abito da società, frac, smoking eccetera. Mai una conferenza, una riunione; mai una qualunque delle tante iniziative, come gite, visite agli stabilimenti locali, partecipazioni a manifestazioni collettive a Terni e fuori Terni, tanto utili per dare plasticità alla mente dei lavoratori e per allontanare dai lavoratori stessi quel senso di preoccupazione determinato da condizioni economiche certamente poco favorevoli. Largamente usata è invece l'iniziativa dopolavoristica per partecipare a gare sciistiche, tournée in varie città d'Italia, ma in questi casi la partecipazione è riservata soltanto agli impiegati di alta posizione sociale. Il dopolavoro paga». A Carloni, cui non interessavano né la mondanità né gli spettacoli effimeri e diseducativi, dava molto fastidio la superficialità con cui la direzione gestiva il dopolavoro aziendale e riteneva inammissibili sia i privilegi del ceto impiegatizio sia le umiliazioni della classe operaia. Comprensibile quindi lo sdegno da lui provato in occasione della Festa dei Canottieri del 30 gennaio 1937, «un grande ballo di gala riservata alla "nobless" di Terni, iniziato alle ore 21 e cessato alle ore 5 del mattino», mentre centinaia di lavoratori dalle loro officine seguivano «l'incanto della notte» e comprendevano l'importanza del cenone dall'indecoroso spettacolo dei rifiuti d'ogni specie che dalle finestre del dopolavoro cadevano davanti alle loro officine: «Spettacolo non edificante se si pensa che gli operai in servizio sono coloro che da tre anni, per mancanza di lavoro, fanno pesantissimi turni lavorando in media dalle 32 alle 40 ore settimanali».

Estratto dal capitolo quindicesimo
Al servizio dei lavoratori

Iscrittosi al PNF, Carloni vide facilitata la propria azione in favore dei lavoratori svolta nel sindacato. Adesso le gerarchie politiche con maggiore difficoltà avrebbero potuto intralciare l'opera di un uomo capace e onesto che nel gennaio del 1933 la CNSF dell'industria, Unione provinciale di Terni, nominò capo della Sezione Industrie Metallurgiche. Con Cagli e altri esponenti sindacali, nel gennaio del 1934 Carloni prese parte alla riunione per discutere il Contratto Integrativo al Contratto Nazionale Siderurgici — il cosiddetto «accordo di Milano» — che si svolse presso l'UIF dell'Umbria. Espose gli aspetti tecnici, in particolare la classificazione dei reparti delle Acciaierie, in base a cui era legato il calcolo dei salari. Il 31 agosto successivo fu nominato, sempre dalla CFLI, segretario del Sindacato provinciale operai siderurgici. Alcuni mesi dopo Carloni fu eletto con un referendum membro del consiglio della Federazione nazionale dei lavoratori dell'industria meccanica e metallurgica. In quello stesso periodo il capo del governo lo nominò componente del Consiglio delle Corporazioni, fatto che gli permise di prendere parte, dal 10 novembre 1934, alle assemblee della Corporazione della Metallurgia e della Meccanica. L'attività e l'impegno profuso gli garantirono la fiducia non solo di Cianetti, i rapporti con il quale risalivano a molti anni prima, e di Amilcare de Ambris, ma anche dell'amministratore delegato della Società «Terni», Arturo Bocciardo, dal 1935 presidente della Federazione degli industriali meccanici e metallurgici. Nell'archivio conservato dalla famiglia, contenente la corrispondenza con le più importanti personalità del sindacalismo industriale c'è una lettera del 9 giugno 1935 con cui Bocciardo esprimeva il proprio apprezzamento a Carloni insieme al quale discuteva dei problemi da sottoporre all'esame della Corporazione della Meccanica e Metallurgia. Fede ed entusiasmo per la politica mussoliniana erano gli elementi ricorrenti nello scambio epistolare con il presidente della Confederazione fascista dell'industria. «Io sono orgoglioso di servire agli ordini di Mussolini, in questo momento. Posso assicurarti», gli scrisse Cianetti nell'autunno del 1935,  «che la mia fede e il mio entusiasmo non hanno subito alcun invecchiamento. Mi sento lo stesso di dodici anni or sono. Quanto cammino abbiamo fatto ! E quanto ne faremo ancora per volontà del Duce!» La corrispondenza tra i due amici durò anche negli anni della guerra: nel maggio del 1941 Cianetti gli scrisse: «Mi è pervenuto il biglietto affettuoso firmato da te e da un gruppo di lavoratori ternani. Mi avete commosso. Giuntomi durante i giorni della nostra avanzata mi ha fatto sentire tutto il calore di affetti lontani incancellabili». Ancora più assidui e familiari i rapporti con De Ambris, capo dei metallurgici d'Italia e direttore responsabile de «Il Lavoro Metallurgico», cui Carloni collaborò con alcuni interventi e di cui favorì la diffusione tra gli operai della «Terni». Oltre che su questo giornale il sindacalista temano scrisse in quegli anni sul settimanale della federazione dei fasci di combattimento, «Acciaio», foglio che aveva iniziato le pubblicazioni il 28 ottobre 1934 e che, oltre a fungere da stimolo «sindacal-rivoluzionario», costituì per il mondo operaio uno strumento di alfabetizzazione. «Lavoro e lavoratori» il nome della rubrica di «Acciaio», contenente articoli sul mondo del lavoro e su varie problematiche sindacali. Argomenti, questi, di grande interesse in anni non certo facili per gli operai, come avrebbe a distanza di tempo ricordato il prefetto Formica in un articolo autobiografico: «M'insediai al governo della Provincia il 1° luglio 1933. La situazione politica era in quel momento assai delicata; l'autorità del Rappresentante del Governo risultava gravemente menomata; vi erano migliaia di disoccupati, molti dei quali sovraccarichi di famiglia; un grave malcontento serpeggiava fra la classe sfruttata e maltrattata; e quanti risultavano iscritti negli "elenchi dei sovversivi" erano oggetto di dura sorveglianza. Dominava la situazione la "Società Terni", che vantava molte benemerenze nel campo del lavoro, ma fortemente appoggiata dal Centro, essa manteneva un predominio nel campo politico e teneva a sé legate tutte le Autorità, in genere, della Provincia, al fine di proteggere i suoi particolari interessi, spesso in contrasto con quelli della classe operaia. In proposito, ricorderò un episodio dei primi tempi del mio arrivo a Terni: il giorno dopo la mia visita alle Acciaierie, due operai mi fermarono per la strada e, scusandosi per l'atto di confidenza, mi dissero: "Ieri lei ha visto le cose belle, ma quelle brutte non gliele hanno fatto vedere... Ritorni da noi, ma senza preavviso e quando sono assentii dirigenti, e si fermi principalmente nei reparti dove lavoriamo di notte..." Qualche giorno dopo, a tarda sera, trovandomi a passare dallo stabilimento, vi entrai e potei constare di persona che quanto mi era stato riferito rispondeva al vero. Naturalmente, la mia visita mise in subbuglio la Direzione, ma gli inconvenienti lamentati furono eliminati». Significativa la conclusione, in cui Formica affermava: «Già fin dai primi incontri con gli operai ternani mi ero reso conto della loro intelligenza, della loro preparazione tecnica, della loro disciplina nelle officine e nelle manifestazioni sindacali, del loro attaccamento alla famiglia e alla Patria; ma nello stesso tempo avevo rilevato le tristissime condizioni in cui erano costretti a vivere, i sacrifici ai quali giornalmente si sobbarcavano, gli urgenti loro bisogni che andavano soddisfatti, le ingiustizie e le angherie cui spesso erano soggetti». Su «Acciaio» Carloni esordì nel dicembre del 1934 con «Lavoro e lavoratori», in cui affrontò questioni di grande importanza quali lo sfruttamento femminile e infantile, a dispetto degli accordi sindacali: «La donna e il fanciullo seguitano ad essere occupati in lavori nocivi alla loro integrità fisica in barba a tutti gli appelli e a tutte le propagande sulla necessità di avere una razza sana nel corpo e largamente demografica». Ciò, affermava Carloni, era dovuto al sistema della concorrenza, che imponeva la «ricerca affannosa di ridurre il costo della mano d'opera, sia procedendo alla sostituzione della maestranza adulta con quella minorile o femminile, sia procedendo al licenziamento graduale degli operai per riassumerli con paghe notevolmente ridotte». Convinto che non esistesse nella vita niente di più triste che cercare affannosamente il lavoro senza trovarlo, Carloni rivendicò il diritto alla difesa del lavoro dei più deboli, che fossero ex carcerati, derelitti, menomati, invalidi o mutilati: «Quasi sempre, negli stessi soggetti che già vissero colpevolmente le norme del vivere civile, esiste un fondo di sensibilità per cui, nelle officine, per disciplina e produttività nulla hanno da invidiare agli stessi camerati, immuni da contagio criminale, che affiancano la loro fatica. È quindi un dovere dei datori di lavoro associarsi a quest'opera di redenzione umana vincendo, per questo, tutti i pregiudizi, per i quali, fino a ieri, i liberati dal carcere erano riguardati come reprobi della società e dovevano vivere lontani da essa nell'ambiente malsano e viscido che segnò la loro degradazione morale. Opera santa, quindi, quella dei Patronati per l'assistenza ai liberati dal carcere. E santa è tutta la legislazione dello Stato per garantire la continuità e la bellezza del lavoro ai mutilati di guerra, prezioso patrimonio della Nazione Italiana.  I mutilati del lavoro rappresentano, come i mutilati della guerra per i combattenti, la fulgida schiera degli eroi e dei martiri che hanno dato e sono pronti a dare ancora parte della loro carne. Aprite loro le porte delle vostre officine, eliminate tutti i pregiudizi ed i calcoli economici, fregatevene di tutte le questioni di principio, fate largo ai relitti del lavoro. Rendetevi con la riconoscenza verso essi altamente benemeriti di una questione sociale profondamente umana come quella del "diritto al lavoro", mostrate la vostra ammirazione alla schiera dei forti che hanno insanguinato le vostre officine, le vostre macchine ed hanno con ciò guadagnato il diritto al vostro rispetto».
Va ricordato a proposito come allora a Terni agisse un ente a fini pedagogici come il Patronato per l'assistenza agli ex carcerati, un sodalizio ispirato agli insegnamenti mazziniani. Altrove gestito da antifascisti, questo istituto svolse nella città umbra un ruolo importante nel sostenere le famiglie dei de-tenuti e i liberati dal carcere nella ricerca di una nuova occupazione, conseguendo buoni risultati. «... due dei liberati dal carcere, assunti al lavoro due anni fa, dietro nostra preghiera», scriveva il procuratore Antonio Manichini nel dicembre del 1934, «sono ora per operosità e condotta fra i migliori operai delle Acciaierie», aggiungendo: «...la registrata diminuzione di reati va attribuita specialmente al minor numero di condanne di recidivi e ad infrenare la recidiva ha contribuito sicuramente l'opera dei Consigli di Patronato». Oltre che in difesa dell'occupazione, Carloni intervenne chiedendo che fossero rispettate le condizioni igieniche nei posti di lavoro, come segno di civiltà e premessa di una più completa educazione alla salute," per sottolineare gli inconvenienti derivanti dal sistema di collocamento, e per denunciare l'emarginazione dei mutilati del lavoro.


Vincenzo Pirro
“Una vittima della guerra civile” (Memoria Storica, n.14/15 1999) Ed. Thyrus, 1999.

 Dalla Premessa del saggio

La storia della resistenza non è fatta solo di guerriglia e di antiguerriglia, azioni militari e rappresaglie, attentati e rastrellamenti , è fatta anche di violenza ideologica, di condanne sommarie e uccisioni crudeli. La resistenza umbra non fa eccezione, anzi man mano che la storiografia fa giustizia di falsificazioni politiche e ideologiche e si addentra sul difficile terreno della verità effettuale, emergono aspetti drammatici e disumani della lotta partigiana anche nella nostra regione, prendono corpo vicende e protagonisti lungamente avvolti nella leggenda ; crollano miti costruiti dai vincitori nel dopoguerra e si aprono spazi alla comprensione, al giudizio storico superiore alle parti. A distanza di mezzo secolo, in un mutato clima politico e morale, è possibile far luce su alcuni episodi rimasti lungamente oscuri, e quelli che sembrano atti eroici si rivelano a volte delitti politici  premeditati ed eseguiti barbaramente per il feroce odio innescato dalla guerra civile.
Nella primavera del 1944 la Valnerina fu teatro di una serie di violenze tuttora impresse nella memoria collettiva per la loro efferatezza. I partigiani della brigata garibaldina Gramsci risposero alle retate dei tedeschi e dei fascisti con una serie di colpi di mano in cui caddero vittime non solo militi della Repubblica sociale, ma anche persone innocenti e inconsapevoli, ovvero uomini del vecchio regime, condannati a morte per la loro fede politica o per presunta attività spionistica a favore del nemico. 
La brigata Gramsci era formata in gran parte di comunisti dichiarati o simpatizzanti, oltre ai montenegrini titoisti che “spingevano a sinistra” gli italiani. Per questo la formazione aveva più il carattere di “ partito” ideologicamente e militarmente organizzato che di movimento di liberazione nazionale. La bandiera rossa, il pugno chiuso, la falce e martello, costituivano tutti accessori di un estremismo politico che preoccupava gli stessi dirigenti del Partito Comunista.
Una volta che la rivoluzione prese il sopravvento sulla causa nazionale, fu inevitabile che l’etica della spietatezza, comune a ideologie e sistemi totalitari, contagiasse i partigiani, spesso giovani indottrinati da una improvvisata scuola di partito e immessi in una lotta in cui la pietà era morta. L’antifascismo si radicalizzò, perdendo il carattere morale di “resistenza” e assumendo i connotati politici e sociali del conflitto di classe, compreso il ricorso ai metodi terroristici.
La mentalità ideologica - politica, che ha condizionato fortemente la cultura del dopoguerra, ha impedito agli italiani un esame di coscienza, un ripensamento critico del recente passato che poteva essere la premessa per la comprensione morale e la pacificazione sociale. Soprattutto la cultura storica ha tradito la sua funzione irenica: accreditando e diffondendo la vulgata antifascista e resistenziale, essa ha reso un servigio al dio-partito non all’umanità dell’uomo, che è stata spesso sacrificata alla ragion politica.
Ci sono morti che attendono ancora la sepoltura, e tra questi sicuramente Maceo Carloni, a cui i Tribunali di Terni, di Roma e di Perugia hanno restituito l’onore e la dignità che erano stati calpestati nel tentativo di giustificare il barbaro delitto compiuto da un gruppo di partigiani. Forse mancava solo il giudizio della storia perché potesse trovare la pace eterna. E a questo scopo abbiamo lavorato, dando voce a fatti e protagonisti di una tragedia comune, che finalmente possono essere ascoltati anche fuori delle aule giudiziarie.
Rendendo giustizia a Maceo Carloni, come ad altre vittime innocenti, forse si può raggiungere indirettamente un duplice scopo: 1) dare un contributo serio alla resistenza, che , per inserirsi appieno nella storia nazionale e diventare patrimonio comune, deve far ammenda dei propri errori; 2 ) elevare e pacificare gli animi, che , dagli orrori della guerra civile, sono chiamati a trarre non solo una lezione sul passato ma anche un ammonimento per il futuro.  


Luca Gallesi 

L'inconfessabile continuità tra sindacato fascista e Cgil
dal Giornale.it - Sab, 18/05/2013

La storia esemplare delle acciaierie di Terni mostra quanto i consigli operai della RSI abbiano influenzato l'organizzazione comunista nel dopoguerra
Ci sono luoghi comuni che solo la lenta e paziente azione del tempo riesce a scalfire. A nulla vale la realtà dei fatti o il ricordo dei testimoni: certe convinzioni sono postulati, verità rivelate, indiscutibili e inconfutabili.Di queste assolute certezze, la storia del Novecento è ricca di esempi soprattutto a proposito degli aspetti «sociali» del fascismo, ovvero i suoi rapporti col mondo del lavoro. Contrariamente a quello che generalmente si crede, infatti, ci fu - ed ebbe un ruolo importante - anche un sindacalismo fascista, figlio del sindacalismo rivoluzionario, ma non solo. 
Agli studi specialistici di Pietro Neglie e di Giuseppe Parlato, autori rispettivamente di importanti saggi sul passaggio di autorevoli dirigenti sindacali fascisti nelle file della CGIL e sulla sinistra fascista, si aggiunge ora, su questo tema, un ulteriore, notevole contributo di Stefano Fabei, Fascismo d'acciaio. Maceo Carloni (Mursia, pagg. 366, euro 22), dedicato alla storia, appassionante e poco studiata, della cosiddetta «Manchester d'Italia». Parliamo della città di Terni, sede ancora oggi di importanti stabilimenti siderurgici, dove il fascismo attuò, anche durante la RSI, una efficace politica di tutela dei diritti del lavoratore. 
Città industriale e operaia per eccellenza, Terni viene immediatamente presa sotto l'ala protettrice del fascismo, che la eleva al rango di capoluogo di provincia, trasformandola in un gigantesco conglomerato non solo siderurgico, ma anche elettrominerario, chimico e meccanico. Lo sviluppo industriale è seguito, sin dal 1922, dall'importante gerarca Tullio Cianetti e poi dal protagonista di questo libro, Maceo Carloni, un operaio che, attraverso lo studio e la buona fede, si era fatto strada fino ai vertici del Sindacato Fascista; il suo archivio è una delle fonti principali di Fabei, che ne ricorda con pagine commoventi l'assassinio, a opera di commissari politici comunisti, rimasto vergognosamente impunito.
A proposito della politica sociale fascista, anche a Terni, dove la RSI governa legittimamente fino al 13 giugno 1944, vengono elette le commissioni di fabbrica, organi di cogestione della politica degli stabilimenti, che saranno presi a modello dalla CGIL nel dopoguerra per costituire i consigli di gestione. In una lettera di Longo a Togliatti del 31 marzo 1945, la politica del PCI viene chiaramente esposta: «non siamo contro in principio alle varie istituzioni in questione (vale a dire delle mense popolari, delle cooperative aziendali e della socializzazione), ma solo perché sono fasciste». Quindi aggiunge: «boicotteremo con tutti i mezzi le elezioni delle commissioni interne fasciste, ma è evidente che a liberazione avvenuta procederemo immediatamente alla nomina delle commissioni interne operaie». 
In realtà, come dimostra Fabei, il PCI, almeno a Terni, accettò che nelle commissioni della Repubblica Sociale Italiana venissero eletti elementi comunisti e socialisti, un fatto minimizzato (quando non ignorato) dalla storiografia ufficiale, che sorvola anche sulla politica nazionale perseguita dagli operai - fascisti e antifascisti insieme - contro le pretese dell'alleato germanico. Del resto, nell'agosto 1936, Togliatti in persona aveva lanciato l'appello ai «fratelli in camicia nera» per la «salvezza dell'Italia e la riconciliazione del popolo italiano!»…
Alla fine del conflitto, il CLNAI avrebbe voluto salvare, defascistizzandolo, il principio della partecipazione operaia alla gestione delle aziende, ma i vincitori della guerra, ossia gli Alleati, non tollerarono nulla che avesse anche soltanto un vago sentore di socialismo; così, tra le primissime iniziative del neonato governo antifascista ci fu l'abrogazione della legge sulla socializzazione che, anche se non aveva «disseminato la valle del Po di mine sociali», dava evidentemente molto fastidio. 
Ai comunisti non resta altro che adeguarsi: la rivoluzione è rimandata a tempi migliori e ci si accontenta di cancellare, almeno dalla storia, se non dalla memoria, le imbarazzanti tracce della sinistra fascista.

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